Divenire
una persona matura, esplicitamente o implicitamente, costituisce da
sempre una delle aspirazioni più centrali di ogni persona. Si è
effettivamente e affettivamente maturi quando progressivamente
prendono corpo nella persona le seguenti capacità:
- La capacità
di costruire, promuovere, suscitare vita con altre persone, di
essere generativi. La persona diviene capace di partecipare e
di collaborare alla crescita della vita in vari modi: quello
coniugale e quello celibatario, consacrato o impegnato.
- La capacità
di vere relazioni promoventi, positive e oggettive. Se il
celibato, come anche il matrimonio, non porta frutti di amore, di
vita, ciò avviene probabilmente perché sono vissuti come un
restringimento di sé, della capacità d'amare, di vivere a pieno
nella concretezza dell'esistenza.
Ma
quali passi fare per divenire più capaci di essere se stessi in
verità? Quali sono i punti nodali di una crescita di sé?
C'è un primo passo da fare per imparare ad amare e divenire maturi,
simile allo staccarsi dalla riva per una nave o da terra per un
aereo o dalla pedana di partenza per un atleta. E contemporaneamente
un contrassegno inequivocabile di raggiungimento di questo
obiettivo, seppure sempre in fieri, è l'acquisizione di una
autostima sana, ben fondata e duratura. I
principali passi da compiere in questa direzione sono i seguenti.
1. Favorire
un'autoaccettazione
incondizionata, base dell'autofiducia
a) Vincere
l'insicurezza: la fiducia in se stessi
Occorre
favorire progressivamente un'autoaccettazione incondizionata, che si
traduce in una sana autostima. “Ho poca fiducia in me”,
“Non sono sicuro”, “Ho sempre paura di non riuscire”: sono
espressioni diverse di un unico problema: l'insicurezza. Una ricerca
di L.M. Rulla rivela che il 70-75% dei preti e dei religiosi
soffre di una troppo bassa considerazione di sé. Ciò vale per ogni
categoria di persone. L'esperienza clinico-terapeutica non fa che
confermare questo dato impressionante. Ci amiamo troppo poco o ci
amiamo in modo sbagliato. Ci sentiamo interiormente negativi e
quindi insicuri. Eppure, proprio per essere uomini sufficientemente
autentici, è necessario avere una fondamentale fiducia in se
stessi. Non può, infatti, pensare di gestire la propria vita in
modo coraggioso chi se ne sente incapace, e neppure pensare di
perdere evangelicamente se stesso chi non è abbastanza sicuro
dentro. Non si può perdere chi ancora non si è trovato; non può
rischiare se stesso chi non è sufficientemente sicuro di sé.
L'insicurezza può esprimersi, precisa A. Cencini, in due stili di
vita: lo spaccone e Il timido; sono due stili apparentemente
opposti, ma con la stessa matrice. Nel primo caso l'insicurezza è
negata, nel secondo è subita. Sono due modi per non amare se
stessi.
b) Passi di
autoaccettazione
L'autoaccettazione
si elabora a poco a poco a partire da questi poli in interazione:
- La scoperta e
assunzione sia delle proprie effettive doti,
doni,
capacità, attitudini…, a livello fisico, psichico, morale,
spirituale (cfr. il nucleo del vero sé); sia dei propri limiti
effettivi; sia del negativo presente in noi (cfr. il tarlo
dell'amore o l'egoismo) riducibile o toglibile.
- Il lasciarsi
amare da Dio e da dati fratelli significativi.
Per
lasciarsi amare bisogna disarmarsi e superare il frequente
risentimento sordo, conscio e inconscio. Questo cammino verso una
sana autostima richiede di rifare spesso il patto con la vita, con
realismo e fiducia in base all'età e alle condizioni reali della
propria persona e della vita. È un patto che va rifatto in base
ai ricorrenti desideri esorbitanti.
- L'acconsentire,
e il non vivere di confronti. Osserva R. Schutz che
“l'essere umano è un essere simultaneamente contraddistinto
dalla fragilità e dallo splendore, dall'abisso e dalla pienezza.
In ogni persona ci sono doni unici. Perché dubitare tanto dei
propri doni? Perché confrontandosi con gli altri, desiderare i
loro doni e giungere fino a seppellire i propri?”.
Un'era tecnicizzata intensifica oggi un senso acuto della riuscita e
del fallimento. Il gusto della carriera e quello del confronto sono
inoculati fin dall'infanzia; colui che non riesce secondo le norme
della società si sente condannato e rimpiange il fatto di non avere
i doni dell'altro. Il confronto
sterilizza. Desiderare di avere le capacità dell'altro conduce a
diventare incapaci di scoprire i propri doni. Squalificare se
stessi: ecco apparire tristezza e scoraggiamento.
Perdere la stima di sé quando lo spirito della vita riversa in
ciascuno i suoi doni? La perdita della stima in se stessi soffoca
l'essere umano, incatena le sue forze vive, giunge fino a rendere
impossibile la creazione. Reagirvi
sopravvalutando se stessi, cercando per esempio la considerazione
sociale, non offre alcuna via d'uscita. Sopravvalutarsi, spinti
dalla pressione sociale o a causa dei giudizi di coloro che ci
stanno intorno, forzando artificialmente le nostre capacità,
sarebbe come forzare una pianta a crescere in una serra calda. Una
strada evangelica su cui incontrare lo sguardo del Cristo, osserva
frère Roger Schutz, porta un nome: acconsentire. “Acconsentire
ai propri limiti, di intelligenza, di fede, di proprie capacità.
Acconsentire anche ai propri doni. E nascono creazioni forti”.
2. Maturare una
stima di sé realistica e ben fondata
L'autoaccettazione,
con la conseguente autofiducia, si concretizza nella sana stima di sé.
Ci sono alcuni elementi essenziali che alimentano la stima di sé,
da favorire quindi in vista del divenire adulti in umanità e nella
fede, in ordine al poter servire con cuore libero.
a) Anzitutto la
conoscenza di sé oggettiva
Questa
conoscenza si ha quando la persona è in grado di percepire
realisticamente le varie componenti del suo io, dall'io manifesto,
all'io latente, all'io ideale. Il non conoscersi sufficientemente e
oggettivamente provoca il permanere di una stima artefatta e
illusoria o una non stima, con un'autopercezione negativa. “Ma
alla fine dovetti decidere da me. Dovevo rischiare di infrangere
l'immagine che avevo agli occhi della mia famiglia, degli amici e di
voi stessi: la mia versione del p. Jane Barrette, idealizzata e
ammantata di orgoglio: in una parola quella del superiore generale.
Dovevo dire e dissi: "Ho bisogno di aiuto. Non posso più
andare avanti"”.
b) Apprezzare quello
che si è
Si
tratta di valutare positivamente ciò che si è e si ha per natura,
con tutti i doni e le energie innate, a partire dal dono
dell'esistenza. La stima di sé viene da dentro. Non la si
importa, ma la si risveglia tramite riflessi veri e la si alimenta
attraverso atti di esistenza, di verità, di interscambio. Ciò
porterà a considerare ciò che è essenziale, distinguendolo da ciò
che lo è meno o non lo è affatto.
“La
morte alle mie illusioni”, continua Barette, “mi consentì di
cominciare a vivere nella verità: la verità secondo cui io sono un
miscuglio unico di forze e limiti, di potenza e di debolezza, di
doni e di bisogni; la verità che la vita è vissuta nell'equilibrio
dell'ordinario. Poco alla volta cominciai a riscoprire me stesso e a
prendere possesso di tutto il mio "cuore, anima, spirito e
forza" e ad "amare me stesso", quale presupposto
evangelico per amare gli altri. So che è semplicistico – ma non
meno vero – e quanto mai fecondo cominciare di nuovo ad amare la
propria persona e ad avere rispetto e compassione di se stessi:
perdonare ciò che ha bisogno di essere perdonato, accettare con
onestà i propri limiti e le proprie debolezze; amare e rispettare
se stessi quanto basta per essere dolci nei propri riguardi, quanto
occorre, e forti e disciplinati quando è necessario; essere capaci
di nuovo o, per la prima volta, di amare veramente, vale a dire di
scegliere… Sono stati necessari nove mesi per scoprire le mie
sofferenze, la mia solitudine, i miei bisogni ma anche i miei doni,
le mie forze e capacità. Solo dopo nove mesi sono "rientrato
in me stesso", come dice la parabola del figlio prodigo.
Soltanto allora ho cominciato a "tornare" al vero Jane
Barrette. Solo allora ho cominciato a scoprire il mio vero nome:
"Io sono il bisognoso". E qui ho scoperto il meglio di
ogni cosa, poiché ho trovato Colui che mi chiama con il vero nome,
mi ama, mi sceglie e mi manda”.
c) Una sana tensione
verso il bene
Occorre
poi una sana tensione verso il bene. Non basta l'io attuale per
fondare l'autostima. E solo un germe di positività. Per essere se
stessi occorre tendere verso un completamento di sé, verso una
realizzazione piena dei germi innati. L'autostima, infatti, è
una
realtà dinamica.
“Allora”, precisa Emmanuel Mounier ad una persona molto indecisa
e ripiegata, “metta la vela grande all'albero di maestra e,
uscendo dai porti in cui vegeta, salpi verso la stella più lontana,
senza badare alla notte che l'avvolge”.
d) Integrare il
negativo
Per rendere
possibile una vera capacità d'amare è necessario infine integrare
il negativo presente nella propria vita. Poiché il negativo e il
limite sono una componente normale dell'uomo, la stima di sé
richiede tale assunzione. Occorre perciò integrare il negativo
fisiologico, come limiti e malattie; quello psicologico, come
debolezze, carenze, immaturità, traumi propri della realtà umana,
spesso non legati alla propria responsabilità; quello morale, come
miserie e colpe di vario genere; quello spirituale, come
assenze, forme di idolatria…
Tra il
peccato e la virtù c'è tutta una gamma di inconsistenze
intrapsichiche che intralciano e intasano le nostre scelte. Sono
aree di fragilità da accettare per poi lavorarci su nella misura
del possibile. Non serve avere giudizi negativi su di sé, ma veri e
che denotano accettazione della propria realtà.
“Mi
sento proprio”, dice P., “come se dovessi a forza puntellare con
le spalle una porta dietro alla quale c'è tutta la marea dei miei
"non fatto", "non riuscito", del mio negativo
che ha rotto la diga e spinge per uscire. Vivo tutto il rischio di
restare travolto ed ho tanta paura. Così mi difendo e mi puntello
come meglio posso”.
Ricercare una stima di sé realistica e positiva Àcomporta perciò
rinnegare il falso sé o il sé ilhisorio e aderire ai vero sé.
Ciò
consente di capire e vivere meglio l'invito pressante di Gesù:
“Se uno vuole essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce e mi segua”. Non è un invito all'autolesionismo, ma
alla verità di sé, quella che rende liberi e discepoli.
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