INTELLIGENZA EMOTIVA PER
EDUCATORI

1.
Rimanere a
contatto con i propri sentimenti
Rimanere a
contatto con il proprio mondo emozionale e utilizzarlo per interagire con la
realtà in certe situazioni di vita dovrebbe essere una meta di salute
mentale che sostiene uomini e donne durante tutto l’arco della vita.
Non è una
dottrina nuova: in questa linea si pose il filosofo B. Pascal (1623-1662)
quando sintetizzò una dottrina antichissima che espresse con la formula
divenuta classica: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non
conosce”.
Testualmente scrisse:
“474. Tutto
il nostro ragionamento si riduce a cedere al sentimento. Ma la fantasia è
simile e contraria al sentimento, di modo che non si può distinguere tra
questi contrari. L’uno dice che il mio sentimento è pura fantasia, l’atro
che la sua fantasia è sentimento. Bisognerebbe avere una regola. La ragione
si offre, ma è pieghevole in tutti i sensi; così non si ha nessuna regola.
475. Gli
uomini scambiano spesso la loro immaginazione per il loro cuore e credono di
essere convertiti dal momento che pensano di convertirsi…(…)
477. Il
cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo si constata in mille
cose. Dico che il cuore ama l’essere universale e se stesso naturalmente, a
seconda che si attacchi all’uno o all’altro; e si indurisce contro l’uno o
contro l’altro, a sua scelta. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro:
è forse per ragione che amate voi stessi?
479. Noi
conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il
cuore…(…) ed è su questa conoscenza del cuore e dell’istinto che la ragione
deve fondarsi, e fondarvi ogni suo discorso…”
Troppo
spesso gli uomini di oggi, dimenticato l’insegnamento di Pascal, si affidano
solo alla ragione, perdono il contatto con la dimensione emozionale e, nel
tentativo di “ragionare” sopra ogni cosa diventano duri, insensibili,
critici, difesi, incomprensivi delle necessità altrui. Di conseguenza si
sentono incapaci di entrare in sintonia con i figli adolescenti. Le donne
mantengono un contatto migliore con il proprio mondo emotivo, ma spesso non
riescono a esprimerlo nell’ambito della relazione con gli uomini e rimangono
in una così detta “incomunicabilità” che spesso è causa di rottura di
matrimoni e di unilateralità di rapporti. La mancanza di educazione su
questo settore impedisce la crescita corretta e fissa sopra oggetti
inadeguati una quantità di energie che dovrebbero trovare invece, nella vita
adulta, oggetti più specifici, più “umani”. Se la pedagogia curasse un poco
di più l’educazione del cuore (o educazione sentimentale o la capacità di
rimanere a contatto con le proprie emozioni) la cosa sarebbe molto diversa.
Le
conseguenze di tale mancanza di educazione sono proprio quelle che andiamo
visualizzando troppo spesso nella vita familiare o sociale: bambini che non
imparano a leggere il proprio codice emotivo e rimangono “fissati” sui
bisogni infantili, adolescenti che pretenderebbero di leggere la realtà
secondo il codice emotivo interiorizzato nella relazione “arcaica”
con la propria mamma, donne scontente perché non riescono ad esprimersi in
modo adulto e uomini che si induriscono nel tentativo di rimanere
“razionali” in ogni situazione, rimpiangendo però nel loro interiore il bel
clima infantile nel quale erano compresi dalle proprie madri senza la fatica
di esprimersi.
Molti
uomini si aspetterebbero dalle mogli, durante i primi anni di matrimonio, le
stesse manifestazioni affettive che ebbero dalle proprie madri e, di
conseguenza sono sempre scontenti, si mettono in conflitto con i figli,
bambini o adolescenti, e si aspetterebbero dalle moglie le stesse
attenzioni; molte donne invece non riescono ad adattarsi al ruolo adulto (e
materno) e rimpiangono una libertà che le pone in conflitto con il maschile.
Solo una
tempestiva e progressiva presa di coscienza che anche l’educazione del cuore
deve essere curata nell’arco di tutta la crescita può contribuire, su scala
sociale, al risanamento di tali situazioni nelle generazioni future.
2.
Insegnare la condizione umana
Chi rimane
a contatto con il proprio sentimento è senz’altro in grado di insegnare la
“condizione umana” ai propri figli o ai propri allievi. Gli riesce spontaneo
perché interagisce con il cuore e perciò conquista figli e allievi
attraverso questa modalità di comunicazione che è la più naturale e la più
gradita
Oggi si
cerca di sottolineare anche sul piano pedagogico il recupero dell’educazione
del cuore, accanto all’educazione della mente razionale.
“E’
incoraggiante constatare che anche un autore come Edgar Morin nel recente
saggio I sette saperi necessari all’educazione del futuro (1999)
parli di “insegnare la condizione umana” e tutta la sua complessità. I
fattori che favoriscono la crescita mentale li possiamo dunque pensare come
equivalenti alla capacità di riconoscere la condizione umana, ovvero come
equivalenti alla forza di tollerare e rielaborare la sofferenza psichica
data dalle possibilità di essere aiutati a contenerla. Per dirla in modo
razionale-cognitivo, con Morin, ciò che favorisce una vera educazione è la
consapevolezza…(…) che il pensiero, la scienza, le arti sono state irrigate
dalle forze profonde dell’affettività, dai sogni, dalle angosce, dai
desideri, dalla paura, dalle speranze... Viceversa i fattori che ostacolano
o inibiscono o si oppongono alla crescita sono identificabili nella
negazione degli aspetti di sofferenza, nella negazione della limitatezza
umana, e infine nelle forze distruttive della mente la cui mancata
elaborazione e integrazione dà luogo…alla perdita di preziose attitudini e
capacità intellettuali, di abilità linguistiche e a un impoverimento della
vita sessuale e delle relazioni amorose…”.
Spostare
nell’educazione questa modalità prettamente “umana” di porsi nei confronti
dei giovani è il grande insegnamento di Don Bosco, l’Educatore che scrisse “educazione
è cosa di cuore”;
è il nucleo del suo Sistema Preventivo
che costituì un baluardo di protezione contro l’educazione basata su
ragionamenti e castighi, usuali modalità educative dell’epoca.
E’
abbastanza facile, per chi è attento alle relazioni che esistono all’interno
delle famiglie, delle scuole e nei posti di lavoro, cogliere le modalità
di ragione e le modalità di cuore (per usare la bella espressione
di Pascal) sulle quali ognuno costruisce la propria relazione. Voglio fare
alcune osservazioni, anche a costo di “categorizzare”, attingendo alla mia
esperienza di psicologo psicoterapeuta che da molti anni lavora con
famiglie, allievi e insegnanti.
3.
Unilateralità di crescita: i duri, i sentimentali, i bisognosi
Gran parte
degli uomini (genitori o insegnanti) credono che affidarsi alla ragione
anche nelle relazioni con i figli (o con gli allievi) sia meglio che
affidarsi alla comprensione emozionale, cioè ascoltando il proprio cuore. Si
sforzano di valutare con categorie “logiche” elementi emozionali che
sfuggono di per sé alla logica della ragione, come la rabbia, la sfiducia,
la sofferenza, la misericordia, e perfino l’amore…Il tentativo non riesce e
non persuade perché le due dimensioni della realtà emozionale e dei fatti
concreti sono alternative e si escludono. Sarebbe come voler misurare la
febbre in centimetri o voler ascoltare con le orecchie le onde radio.
3.1.
Uomini rigidi: i “duri”
Questa
categoria di atteggiamenti è quasi esclusiva degli uomini. Anche donne però
arrivano ad essere dure e incapaci di rimanere a contatto con la propria
sfera emotiva. Queste persone sono sempre sicure di sé come avessero la
verità in tasca, sanno sempre dare consigli e stimolazioni. Rimangono
perplesse di fronte a situazioni che non riescono a valutare e dicono di non
capire: certe cose che non capiscono sono “sbagliate”, certe richieste
affettive sono “pretese”, certe attività che spingono dall’interno (come i
desideri artistici, certi progetti per il futuro…) sono “fantasie inutili”,
e certi bisogni di affetto o di appoggio sono “smancerie” ecc.
Chi non
capisce tende a rimanere sulle posizioni interiori che ha costruito: non
accetta informazioni diverse che possano mettere in crisi la propria
conoscenza e i propri “principi”, non si confronta con nessuno. Si indurisce
quasi sulla propria modalità e ne difende la “verità”. Non per nulla viene
detto popolarmente “rigido”, cioè non duttile, non adattabile ad una
comprensione diversa. Con i figli questi uomini/donne sono intransigenti e
non accettano quel fluttuare affettivo che è tipico dei bambini e degli
adolescenti: non “contrattano”con essi i loro desideri e le loro visuali
perché sentono che distruggerebbero le proprie convinzioni interiori.
Non sanno
che senza coinvolgersi in questi sentimenti non aiutano i figli a “valutare”
la realtà esterna (magari i fatti di Novi Ligure!) e a utilizzare il secondo
canale che è quello del cuore. Essi stessi non sanno valutare i fatti se non
con la ragione emettendo giudizi drastici e intransigenti. I ragazzi sentono
solo la durezza e la pretesa “logica” di genitori (o educatori) simili. Si
chiudono in se stessi tentando di rimanere – finché lo sforzo regge - sui
valori interiorizzati a livello infantile, che però non sono però
sufficienti a valutare cose complesse. Quando non ne possono più respingono
le informazioni in blocco “mimando” atteggiamenti di durezza presi magari da
certi film, dove i protagonisti sono tutti “super” al di sopra delle leggi e
della morale.
Questa
spiegazione reggerebbe di fronte ad atteggiamenti espressi dai giornali con
frasi come la seguente: “Ho ucciso io quella ragazza. Solo una frase poi il
silenzio. ..Sa di rischiare l’ergastolo, ma non versa una lacrima”.
3.2.
I sentimentali labili
Altre volte
genitori (e insegnanti) manifestano atteggiamenti opposti a quelli descritti
sopra: sono spaventati di tutto, reagiscono con ansietà e insicurezza ad
ogni situazione esterna, si barricano in posizioni difensive che hanno
l’etichetta della paura o della diffidenza verso tutto e verso tutti. Queste
persone (più le donne che gli uomini) sanno emetter solo giudizi emotivi e
si coinvolgono in ogni situazione triste, identificandosi nei fatti dolorosi
senza possibilità di distanziamento, come se quei fatti fossero personali.
Ricordo una giovane signora che di fronte ai fatti di Cogne mi diceva in
lacrime: “io non so che pensare: mi pare di impazzir dal dolore e sento che
sarebbe meglio suicidarmi piuttosto che vivere, se avessi ammazzato il mio
bambino. Spero che mia figlia (una ragazzina di otto anni) non sappia mai di
questa cosa (il fatto riportato dai media) e che nessuno gliela dica.
Soffrirebbe troppo!”.
Che
giudizio emette una signora come questa su fatti complicati? Che
amplificazione valutativa farà nello spirito della figlioletta?
A contatto
con valutazioni puramente emotive-istintive i figli non riescono a
inquadrare i fatti complessi e si sentono “contagiati” dalla sofferenza dei
genitori (o degli insegnanti) della quale si difendono buttando via in
blocco, ancora una volta, l’informazione. Allora recuperano i valori
interiorizzati nell’infanzia, che però non sono sufficienti – come detto
sopra – a valutare i fatti concreti e si comportano “da bambini”
rifiutandosi di “sapere”. Quando lo sforzo non regge più, esposti
evidentemente alle informazioni dei media, i ragazzi ricercano dai media
stessi comportamenti “neutri” da utilizzare per distanziarsi e non soffrire:
atteggiamenti di menefreghismo, di fatalismo, di superficialità, di
compromesso morale ecc.
Anche in
questi casi i figli rifiutano di entrare in comunicazione con i genitori (o
con i professori) per rielaborare con essi i propri sentimenti. Sentono che
non possono confrontarsi con la lamentosa espressione del giudizio emotivo
che i genitori (insegnanti) esprimono perché aggiungerebbero alla loro
sofferenza la propria insicurezza.
Anche i
genitori (o gli insegnanti) troppo sentimentali non sanno emettere un
giudizio: mancano della ragione per moderare il giudizio troppo emotivo del
cuore.
Già oltre
tre secoli fa l’insegnamento di Pascal era di utilizzare il duplice canale
di conoscenza e valutazione della realtà: “Noi conosciamo la verità, non
solamente con la ragione, ma anche con il cuore…(…) ed è su questa
conoscenza del cuore e dell’istinto che la ragione deve fondarsi, e fondarvi
ogni suo discorso…Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo
si constata in mille cose. Dico che il cuore ama l’essere universale e se
stesso naturalmente, a seconda che si attacchi all’uno o all’altro; e si
indurisce contro l’uno o contro l’altro, a sua scelta. Voi avete respinto
l’uno e conservato l’altro…”.
3.3.
I bisognosi
Ancora
peggio, rispetto alle due categorie descritte sono gli influssi e gli
insegnamenti di coloro che definisco i “bisognosi”. In questa categoria ci
sono indifferentemente uomini e donne: i tratti che li caratterizzano sono
la fragilità di personalità, la unilateralità del loro giudizio, la
drammaticità delle loro espressioni. Bambini e adolescenti a contatto con
genitori (e insegnanti) del genere interiorizzano un codice emotivo
sulla linea del bisogno personale di protezione, esasperato rispetto ai
fatti esterni, del tipo: “tutto il mondo è “contro di noi”, “tutti sono
incomprensivi nei nostri confronti”, “nessuno ci aiuta mai quando abbiamo
bisogno” …. Frequenti sono le frasi come queste: “a me nessuno a ha mai dato
niente”, “ho dovuto guadagnarmi tutto a caro prezzo”, “ognuno nel mondo
pensa a se stesso e a me degli altri non me ne frega proprio più niente”,
“ognuno fa come può e rimane sempre fregato lo stesso ”, “cosa vuoi che
dica? Io la sbaglio sempre e ho sempre torto” ecc. ecc.
Personalità
che sentono le cose in questo modo sono incomplete. Rimaste insoddisfatte
nelle relazioni arcaiche, e non credono alla bontà della gente. Sono dei
potenziali egoisti (proprio come sono i bambini) e dei potenziali depressi
che si aspettano da tutti le cure materne che non hanno avuto nella prima
infanzia...
Che
giudizio valutativo di fatti complessi possono dare ai propri figli (o ai
propri allievi) personalità simili? I ragazzi adolescenti si scontrano con i
bisogni ottusi espressi nella modalità drammatica dei loro genitori
(insegnanti) e non osano iniziare a rielaborare con essi i propri
sentimenti. Se hanno interiorizzato bisogni analoghi a quelli dei propri
genitori rimangono addirittura “sotto la gamma d’onda” degli avvenimenti
esterni e non percepiscono come “veri” i fatti che dovrebbero valutare in
qualche modo per potersene distanziare. In questi casi la conoscenza stessa
viene inibita dai bisogni personali.
Le
categorie che ho cercato di descrivere evidenziano anche nel mondo degli
adulti panorami di fragilità e di radicalità che offrono agli adolescenti
modelli poco accettabili e spesso distolgono gli adulti stessi dalla
comprensione delle gravi difficoltà identificative in cui si vengono a
trovare gli adolescenti.
Un’analisi
approfondita dovrebbe indagare come questi individui sono in grado di
valutare i valori affettivi: come hanno imparato il codice emotivo
nel corso della loro infanzia, come hanno aggiornato questo codice nel corso
degli anni successivi fino a raggiungere lo stato di personalità attuale,
come “sentono” o sanno “leggere” i fatti alla luce dei loro valori e alla
luce dei valori sociali (che forse non conoscono ancora).
Molti
adolescenti, nonostante i 18 anni giuridici della maggiore età, sono rimasti
sulla soglia dell’incapacità di distinguere chiaramente tra mondo interno e
mondo esterno per cui non riescono a distinguere chiaramente tra sentire
interiore fatto di fantasia e di associazioni (che riportano alle
esperienze arcaiche), e realtà esterna caratterizzata da situazioni
“oggettive”.
Sulle
situazioni oggettive esterne al soggetto è possibile intervenire solo dopo
aver emesso una valutazione dei fatti, dopo una presa di posizione…
Spesso
emerge dalle indagini psicologiche che l’adolescente (e il giovane uomo)
vive in una specie di mondo senza precisi confini, configurato sui suoi
bisogni e sconfinante con le sue fantasie: da una parte vi è certamente
lui/lei con la sua realtà fisica, legato alla sua famiglia con legami
infantili, dall’altra c’è una immagine confusa di sé nel presente e nel
futuro (scuola, lavoro, modelli presentati dai media, pulsioni profonde
verso la crescita ecc.) non sufficiente a sostenere l’identità del momento
attuale.
I fragili
confini tra interno ed esterno si spostano continuamente tra reale e
fantastico fino a diventare “virtuali” per cui il giudizio di valutazione
dei fatti veri appare all’adolescente pirandelliano “così è se vi pare”!
Per una
comprensione diagnostica di queste condizioni soggettive, vista in relazione
a fatti gravi che vedono come protagonisti ragazzi adolescenti (o giovani
uomini/donne) bisogna dunque indagare adeguatamente alcune dinamiche
importanti, tra le quali:
-
La
storia relazionale dei primi
anni di vita, che permette di valutare in qualche modo le modalità della
crescita emotiva, mediante la quale ognuno ha interiorizzato un proprio
codice emotivo iniziale, punto di partenza dei sentimenti
relativi a fatti esterni al soggetto; e i contenuti interiori che da
essi sono nati, e che sono necessari alla distinzione soggettiva tra
mondo “interno” ed “esterno”.
-
La
struttura di personalità in
base alla quale è possibile una valutazione almeno grossolana dei
confini esistenti tra le posizioni di “interno” ed “esterno”.
-
La
maturazione cognitiva che
ognuno ha raggiunto nel momento evolutivo in cui si trova. La
maturazione cognitiva è la capacità di ragionamento che sostiene la e
indirizza la motivazione verso la presa di posizione
Solo dopo
adeguata indagine psicologica è possibile rendersi conto del come
l’adolescente si è rapportato verso fatti o azioni che lo vedono
protagonista. Anche in sede di tribunale non è possibile emettere giudizi di
colpevolezza o di assoluzione senza aver ricostruito le coordinate della
personalità: la maturazione raggiunta in quel momento di crescita, la
struttura globale della personalità e i parametri psicologici che spiegano
la motivazione, la capacità di ragionare e di coinvolgersi con l’esterno.
4.
Una verità di difficile ricostruzione
L’uso di
sostanze che alterano in qualche modo la coscienza - strumentali spesso a
bisogni di inserimento o a fantasie di onnipotenza -, rende ancora più
fragili i confini tra “interno” ed “esterno”, annullando la distinzione tra
contenuti puramente interiori, creati per effetto di fantasia alterata, e
contenuti reali che avvengono all’esterno con o senza partecipazione attiva
del soggetto.
Questa
condizione fa vivere il giovane in un “mondo virtuale”, in continua
trasformazione, nel quale egli è contemporaneamente attore e spettatore,
sempre in “viaggio”, come appunto viene detto l’uso di droghe da vari autori
nelle relazioni che la descrivono, anche in modo romanzato.
Cogliere la
verità oggettiva dei fatti e la intenzionalità del soggetto rimane speso
impossibile.
Quando sono
accaduti avvenimenti gravi e delittuosi che hanno ragazzi come protagonisti,
le sottili e complicate posizioni degli interrogatori, delle istruttorie e
dei processi disturbano ulteriormente la valutazione dei fatti realmente
accaduti e delle responsabilità personale. Spesso gli adolescenti
incriminati, che magari hanno confessato ai carabinieri o alla polizia i
propri delitti subito dopo i fatti, vengono guidati dagli avvocati difensori
a “cambiare” la verità, ritrattando o tacendo.
La perizia
psichiatrica richiesta dai tribunali (o la controperizia di parte
sollecitata dai difensori) dovrebbe ricostruire per i giudici l’iter di
crescita e la capacità di giudizio del soggetto. Spesso però gli psichiatri
non sono all’altezza del loro compito, o sono di formazione puramente
biologico-meccaniscistica per cui la parte dinamica-relazionale viene
snobbata, e la parte motivazionale non viene indagata. Spesso gli avvocati
stessi sono “bravi” e rivestono di menzogne gli eventi oggetto di indagine,
distaccandosi notevolmente dall’oggettività fatti realmente accaduti,
.perché ritengono “vero”solo quello che riescono a dimostrare vero.
L’interessato allora si domanda con angoscia e con cinismo (comunque secondo
le modalità difensive che gli sono suggerite) se veramente lui/lei è
colpevole, se veramente è stato lui/lei a operare, se veramente lui/lei è
come gli altri o se è diverso, se è una specie di mostro o di super man
ecc.
5.
L’adolescente “alienato” che utilizza solo il registro del proprio bisogno
Molti
giovani di oggi che pure hanno raggiunto una consistente età cronologica
(che va tra i venti anni e i trenta) sono rimasti “sottosviluppati”
emozionalmente, non sanno leggere il proprio codice emotivo, non hanno
interiorizzato capacità di “giudizio” di fronte a fatti complessi che
esigerebbero capacità di analisi, criteri di riferimento a valori morali
interiorizzati, e sanno utilizzare solo strumenti cognitivi molto poveri.
Rimangono come “fissati” su capacità di lettura assai povera, molto vicina a
quella dell’infanzia con la possibilità di cogliere in sé pochissimi
sentimenti: “alienati” quindi a leggere una realtà complessa.
Sono
certamente fragili nel giudizio, ma quasi “assetati” di conoscere
un’opinione autorevole: sono dunque facilmente manipolabili da opinionisti
che esprimono in modo sicuro le proprie visuali (morali, politiche,
religiose e magari anche psicologiche), magari sotto forma di spettacolo o
di dibattito televisivo guidato. Per questa ragione – credo - sono aumentate
in questi anni le trasmissioni-spettacolo che riguardano avvenimenti
complessi e drammatici (processi contrastati, delitti efferati, episodi di
guerra, liti familiari…): attraggono l’attenzione popolare, polarizzano
emozioni forti verso fatti gravi e fanno leva sulla necessità di emettere un
“giudizio”.
Solo
l’educazione ai valori può aiutare i giovani a superare la grande divergenza
tra la realtà complessa che richiede capacità di giudizio, e la povertà di
comprensione cognitiva, che utilizza una “lettura” dei fatti operata con
strumenti inadeguati.
Sono tanti
i ragazzi che non sanno leggere le proprie emozioni per cui non “capiscono”
avvenimenti drammatici come quelli sopra descritti: eterni adolescenti (o
giovani) che non hanno mai imparato a collegare i concetti ai loro
sentimenti, che non hanno creato mai i raccordi cognitivi per poter
esprimere se stessi, che, in altre parole, non possono contare su di un
codice emotivo sufficiente a leggere la realtà in termini oggettivi.
Questa
frequente forma di “povertà” (o di sottosviluppo) genera spesso conflitti
interiori difficili a modificarsi perché composta di una valenza cognitiva e
di una valenza emotiva in contrasto tra di loro, o tra di loro
completamente autonome, come se l’individuo rimanesse esposto a due
dinamiche inconciliabili che si potrebbero verbalizzare con lo slogan: “non
capisco le cose su cui dovrei emettere un giudizio”, o meglio “devo
giudicare una cosa che non ho capito”.
Moltissimi
giovani iniziano a vivere in questo conflitto, accanto a mamme frettolose e
distratte, fin dai primi anni di vita; in adolescenza “fissano” alcune
modalità per gestire in qualche modo le informazioni contingenti che
provengono dall’esterno, ma queste modalità sono quasi sempre inadeguato
rispetto alla posizione adulta e tirano avanti vivendo in una specie di
limbo cognitivo, dove le emozioni e i sentimenti interiori
agiscono in modo autonomo rispetto ai concetti che li dovrebbero
interpretare, strumentalizzate dai propri bisogni interiori... Vivono una
vita cronologicamente adulta, ferma su posizioni infantiloidi.
Per
cambiare stile dovrebbero rifare il processo di passaggio dall’emozione al
giudizio, quel processo che abilita il bambino a discriminare e
generalizzare sopra fatti esterni a lui; ma la scuola – preoccupata di
programmi e apprendimenti – li aiuta ben poco in questo recupero di abilità.
Non possono, di conseguenza, sentirsi capaci di prendere posizione di fronte
a fatti che non coinvolgono direttamente i loro bisogni profondi, gravi o
banali che siano. Per valutare i fatti che in qualche modo li toccano
utilizzano le modalità di comprensione che ognuno ha sviluppato nel corso
della propria crescita. Di solito modalità di valutazione incompleta e
difensiva come: negazione di responsabilità, distanziamento, chiusura in se
stessi, lamentele e depressioni, proiezioni grossolane ecc. Usano cioè, in
altre parole, tutti quei comportamenti che si leggono sui giornali come
reazioni di adolescenti e giovani in occasione di avvenimenti gravi o
delittuosi.
6. Un
poco di teoria per comprendere meglio
Il modello
teorico di questo meccanismo ci è dato dagli studi sullo sviluppo cognitivo
che partono dalla patologia dei bambini autistici, intendendo autismo
proprio nel senso inteso da E. Bleuler in riferimento a “individui
interamente assorbiti dalle proprie esperienze interiori con conseguente
perdita di ogni interesse per la realtà esterna, le cose e gli altri”.
“Lavorando
con questi (bambini autistici) abbiamo riscontrato che alla base
dell’intelligenza c’è il collegamento fra un sentimento o un desiderio e
un’azione o un simbolo. Quando un gesto o un’espressione verbale si
riferisce in qualche modo ai suoi sentimenti o desideri…il bambino impara ad
usarlo in maniera appropriata ed efficace. Finché non stabilisce il
collegamento, però, il suo comportamento e la sua comunicazione rimangono
problematici. Alla base del disturbo c’è proprio la difficoltà a stabilire
collegamenti…(…). Quanto appreso dal lavoro sui bambini autistici ci ha
aperto una nuova possibilità di capire l’evoluzione dell’intelligenza…”
E’
interessante chiederci come avvenga la conoscenza della realtà esterna agli
inizi della vita di un essere umano.
6.1.
La lettura “emotiva” della realtà esterna
La risposta
a questo basilare interrogativo esigerebbe uno studio completo di psicologia
evolutiva, per il quale rimando al bellissimo volume del prof. Greenspan,
una delle massime autorità in campo evolutivo oggi.
Anche lui
si chiede in modo retorico:
“Come può
una manciata di emozioni organizzare una massa di informazioni vasta come
quella racchiusa nel cervello umano? Per affinare le nostre scelte ,
moduliamo le emozioni in maniera da registrare lievi variazioni e
combinazioni di tristezza, gioia, curiosità, rabbia, paura, gelosia,
speranza e rimpianto. Possediamo un metro straordinariamente sensibile con
ci misurare le nostre reazioni; anzi, in un certo senso, è come se fosse
questo metro a possederci. Prestando attenzione allo stato soggettivo del
proprio corpo si può percepire una tonalità emotiva, per quanto sfuggente e
difficile da descrivere. Ci si può sentire tesi o rilassati,, fiduciosi o
scoraggiati, sereni o giù di morale. La tonalità emotiva interiore si
riconfigura costantemente in innumerevoli variazioni che servono a
etichettare, organizzare, archiviare, recuperare e, soprattutto, a dare
senso alla esperienza. In questa operazione è coinvolto tutto il corpo…”
Sintetizzando dai lavori di questo autore presento alcune affermazioni che
hanno base scientifica e sono accettate oggi dagli studiosi, per poter fare
poi alcune applicazioni al mondo degli adolescenti.
-
All’inizio della vita ci sono solo i sentimenti tra madre bambino,
nessun concetto adeguato a valutare gli stessi sentimenti. L’unico
criterio per il quale i sentimenti vengono fermati o raccolti
(immagazzinati) è il criterio di gratificazione: mi piace, non mi piace.
Da questa prima impressione inizia a formarsi la struttura interiore del
cervello interpretativo della realtà esterna.
-
Il
bambino impara ben presto a collegare ai sentimenti di tonalità
gradevole gli avvenimenti esterni che li generano; questo è per lui in
quel momento la rappresentazione del mondo esterno a lui. L’esterno
“esiste” ed è “buono” o “cattivo” in modo proporzionato alla
gratificazione che il bambino collega ai sentimenti con i quali viene
interagito dalla madre (e poi dalle altre figure familiari).
-
Solo in
seguito il mondo esterno viene “costruito” partendo da queste prime
emozioni, “codificate”come sentimenti accettabili, se non proprio
piacevoli. “La chiave dell’enigma sta nel fatto che è l’emozione a
organizzare esperienza e comportamento”.
-
Solo
molto più tardi, quando cioè i collegamenti tra emozioni e azioni che li
generano sono stati fatti, inizia il “giudizio cognitivo” su di essi,
quando il bambino è in grado di utilizzare i simboli della realtà
interiorizzato.
-
Allora
il bambino è capace di capire il contesto in cui un’azione avviene,
riesce a organizzare le energie proprie per una risposta pertinente, si
adegua al contesto esterno a lui.
“Il bambino
per tanto discrimina non tanto memorizzando esempi o regole consce o
inconsce, quanto portando con sé da una situazione all’altra il proprio
bagaglio di stimoli emozionali. Quando questo metro di discriminazione
composto da stimoli emozionali passati viene applicato a circostanze nuove
che riproducono un sentimento familiare, il bambino tende ad applicare il
comportamento pertinente. Senza tale strumento di grane precisione diventa
difficile reagire in maniera appropriata...Gli affetti che ci portiamo
appresso da una situazione all’altra ci dicono che cosa pensare, dire e
fare, inserendo ciascun evento nel contesto emotivo e globale della nostra
vita. Così siamo in grado di comprendere… e di discriminare…”.
6.2.
La prima struttura cognitiva
La strada
per cui un avvenimento viene percepito come un “fatto esterno” non è dunque
cognitiva, come molti pensano, ma emozionale: un fatto esterno viene prima
sentito (percepito con i sensi), poi valutato emozionalmente
se gradito o non gradito (comparato con la catena di esperienze precedenti),
poi rielaborato, cioè agganciato alla catena di concetti
(codificato in simboli utilizzabili), poi finalmente “giudicato”.
Ognuno
intuisce quanto sia importante per la costruzione dell’Io questa prima
struttura emotiva. Importante ai fini di percepire il mondo esterno secondo
modalità “oggettive” (che trascendono i confini personali): valutare
avvenimenti che dalle emozioni vengono presentati con colorito (soggettivo)
accettabile, rimanere quindi a contatto con il mondo esterno interiorizzato
mediante queste emozioni, utilizzare questi contenuti come linguaggio di
scambio con gli altri.
Quando dico
“oggettivo” intendo una modalità di conoscenza che ha che fare con il fatto
“esterno” che avviene indipendentemente da chi lo percepisce.
Interessante è la conclusione pratica: un fatto esterno mantiene il colorito
delle modalità emozionali con cui viene interiorizzato: “noi categorizziamo
idee e informazioni secondo le caratteristiche fisiche registrate dai nostri
sensi”.
Purtroppo
l’apprendimento di avvenimenti o di nozioni (anche l’apprendimento
scolastico) inizia sempre con la capacità di rielaborare le emozioni che già
si sono sedimentate nella personalità e utilizza la capacità di regolare i
sentimenti spesso troppo coloriti di bisogni personali.
“Ciononostante, abbiamo la possibilità di codificare, immagazzinare,
organizzare e recuperare efficacemente grandi quantità di informazioni in
virtù del significato emotivo che hanno per noi, nonché di analizzare
razionalmente tale significato per dare un senso alla nostra vita.”
7.
L’educazione emotiva come rimedio integrativo
L’educazione che si fissa prevalentemente sul livello cognitivo, come è di
prassi nelle scuole, è sempre un’educazione parziale perché trascura il
fatto che. il livello cognitivo poggia pesantemente sul livello emozionale
(proprio in senso epigenetico).
Sarebbe
dunque necessario che ad ogni età le figure adulte di riferimento si
interessassero seriamente del livello emotivo, predisponendo interventi
educativi specifici, analogamente a quanto avviene nella scuola per
l’educazione del livello cognitivo.
Se queste
analisi estremamente attuali sono vere non rimane che una strada da seguire
nell’educazione emotiva dei bambini e dei ragazzi: curare in modo mirato la
relazione tra adulti significativi e giovani in evoluzione. in modo da
sollecitare le espressioni personali di sentimenti allo scopo di moderare
quelli troppo intensi, allargare quelli limitati solo ai bisogni del
momento, risanare quelli che sono troppo impregnati di dolore, ansietà,
radicalità ecc.
La
relazione arcaica tra madre e bambino è basilare, ma altrettanto
importante dovrebbe essere in seguito la relazione educativa che
raccoglie e ordina l’espressione dei sentimenti, che sa “ascoltare” in ogni
momento della crescita - fino e oltre l’adolescenza - la rielaborazione
fantastica dei contenuti interiori.
“Sebbene le
questioni che si affrontano negli anni successivi siano diverse da quelle
dei primi ani di vita, legami e rapporti emotivi rimangono al cuore dello
sviluppo mentale…(…) C’è il rischio che…il bambino venga sopraffatto da
tutte le possibilità e perda il contatto con la realtà, oppure che restringa
troppo la gamma della curiosità e creatività diventando troppo rigido e
focalizzato; ma può anche trovare un equilibrio che gli consenta di essere
curioso e creativo, di vedere le cose da più di un punto di vista e di
capire il contesto, di sviluppare la responsabilità e il giusto grado di
prudenza che gli dia il senso di sicurezza necessario per affrontare le
avventure future…(…) Tra i dieci e i dodici anni molti bambini cominciano a
sviluppare un’immagine di sé interiore che riflette i loro bisogni, desideri
aspirazioni e valori e non soltanto le reazioni dell’altro. Grazie alle
sempre maggiori capacità cognitive, inoltre, iniziano a rispondere più alla
coscienza e meno alla paura di essere puniti…(…) il mondo di chi entra
nell’adolescenza continua ad espandersi fino a comprendere una comunità
allargata al di là del gruppo dei coetanei. Gli adolescenti affrontano
situazioni complesse come la diversità dei valori dei coetanei e dei
genitori e al tempo stesso concepiscono interessi più vasti, per esempio per
la politica, le questioni morali e religiose, i movimenti sociali e
simili…Vista la massiccia opera di demolizione e ricostruzione che avviene
nell’adolescenza, solo fondamenta robuste permettono di mantenere un
equilibrato senso di sé. Se il gran numero di ponti realizzati in questo
stadio è costruito su basi instabili, il ragazzo non riesce ad affrontare le
sensazioni intense che si presentano: sessualità, perdita dell’infanzia,
nuove forme di umiliazione …”.
Senza
interessamento e cura specifici il codice emotivo non viene
“aggiornato” in ogni momento della crescita e “sistemato”in adolescenza fino
a sostenere l’analisi e la valutazione di avvenimenti personali o sociali
complessi o anche gravi.
Chi deve
prendersi cura di questo aspetto educativo volto alla formazione di un
codice emotivo efficiente e regolare il filtraggio tra mondo
interno e mondo esterno?
Certo
nell’infanzia di estrema importanza è la figura femminile (che in qualche
modo lo fa sempre, ma per quanto ne è capace); negli anni successivi però,
quando vengono in primo piano le figure sostitutive nella scuola materna,
elementare e media, questo processo spesso si blocca e si irrigidisce per
mancanza di sollecitazioni.
Fontana Umberto,
psicologo e vicedirettore Cepof - Verona
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